giovedì 1 giugno 2017

Le catene di Giulia



In campo lavorativo ambivo ad un posto statale, di ruolo, un posto sicuro, che presto sarebbe arrivato e che mi avrebbe permesso di accollarmi un mutuo interminabile per un modesto appartamento. Tutto per uscire dal condizionamento, della vergogna, di abitare in una casa in affitto.
In poco tempo e con mia soddisfazione ero stata ingoiata da un sistema sociale che, per poche briciole, mi regalava l’illusione di valere, di sentirmi ‘qualcuno’ nel possedere il nulla. Inoltre ero diventata abilissima nel raccontarmi le più devastanti menzogne. Giocavo alle belle mascherine. Un gioco molto conosciuto e comune a questa umanità, che presto si rivelò  salvificamente mortale.

Lo sradicamento forzato dalla famiglia d’origine, vissuto in giovane età, mi aveva permesso di essere fiera d’appartenere alla massa obbediente o, perlomeno, questa era la storia che mi raccontavo. Credevo  in questa vittoria.
In campo lavorativo ero riconosciuta e lodata come un’ottima im-piegata. Arrivavo in ufficio qualche minuto prima dell’orario stabilito, e da buona ‘suddita’ mi trattenevo oltre l’orario di chiusura.
A volte bastavano anche solo pochi minuti in più. L’importante sarebbe stato terminare il mese con un calcolo orario in positivo, e mai in negativo. Con orgoglio timbravo il  cartellino ed il conteggio settimanale del mio servizio mi permetteva di racimolare un po’ di orario straordinario, convertito in un misero premio salariale.

Velatamente, inesorabilmente, incessantemente, ero ingurgitata dal e nel meccanismo infido della servitù dell’ occupazione onesta e devota al padrone. Quel meccanismo tanto decantato da quell’emancipazione bramata e raggiunta che promette riconoscimento. Accade alle dormienti. Ed io lo ero.
Oggi, a distanza di tanti anni, ho la consapevolezza di aver vissuto una straordinaria seppur durissima esperienza e lezione durata circa trent’anni.

Se invece la racconto osservandola da quel punto fisso in cui apaticamente dimoravo, si mostra come un periodo sterile, infelice, trascorso a compilare schede e certificazioni, inserire dati su sistemi informatici, archiviare fascicoli, calcolare orari, ricostruire carriere, computare pensioni, redigere statistiche.
Tutto uguale tutti i giorni, tutti i mesi, tutti gli anni. Tutto inesorabilmente sicuro.
Cambiavano solo i nomi attraverso le circolari ministeriali che sistematicamente registravo al protocollo, e trasferivo in apposita cartella da far visionare alla direzione. Tutto restava pressoché uguale con qualche modifica che, anziché alleggerire, complicava e appesantiva di anno in anno la burocrazia e la mia tristezza, appesantendo il sarcofago che stava sulle mie spalle e che portavo con falsa dignità.

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